Ciao a tutti,
A presto!
chi mi conosce sa che non sono solito elogiare le attrezzature fotografiche; l’atteggiamento tipico del fanboy è lontanissimo dal mio modo di essere e la scelta dei miei strumenti non dipende dalla presunta affidabilità di questo o quel marchio. Tuttavia, vorrei fare un’eccezione per una certa categoria di fotocamere, per le quali intendo pronunciarmi a favore, spiegandone il motivo. Si tratta di macchine che, di norma, vengono snobbate dalla maggior parte dei fotografi “regolari”; in certi ambienti pseudo-artistici sono invece elogiate in modo assurdo, presentandone i difetti come se fossero pregi, elevate a icone e magari commercializzate a prezzi improponibili. Sto parlando di quelle che, con un termine non sempre corretto, vengono definite toy camera: fotocamere a pellicola “giocattolo”.
A dire il vero, la maggior parte delle macchine definite in tal modo non sono propriamente giocattoli, bensì fotocamere estremamente semplici, con poche impostazioni regolabili (alcune ne sono prive del tutto), in grado di produrre immagini non paragonabili a quelle fatte con strumenti più sofisticati, ma che in ogni caso non hanno neppure difetti così evidenti come quelli delle toy camera propriamente dette.
L’unico punto in comune con queste ultime, motivo per il quale le si fa spesso ricadere tutte nella medesima categoria, è il fatto di essere macchine molto semplici.
Le fotocamere “semplificate” ai loro tempi ebbero un ruolo chiave nel diffondere la pratica della fotografia; i primi modelli nacquero dall’esigenza della Kodak di diffondere la grande novità fotografica di fine ‘800: la pellicola. All’epoca le macchine fotografiche erano di grosse dimensioni e utilizzavano lastre in vetro o in metallo per i negativi. A utilizzarle erano i professionisti, o comunque persone dotate di una certa competenza tecnica.
Il nuovo tipo di supporto per negativi, avvolgibile in rulli, era rivoluzionario e permise la creazione di fotocamere più portatili e più semplici da usare. Per vendere maggiormente i suoi prodotti, l’azienda statunitense propose infatti un apparecchio estremamente basico: una scatola dotata di un obiettivo e di un meccanismo di scatto, venduta già caricata con la pellicola. Il rullo era sufficiente per circa un centinaio di foto, scattate le quali l’utilizzatore avrebbe portato tutto al laboratorio, ottenendo le foto e il caricamento della macchina con un nuovo rullo.
L’idea ebbe successo e ampliò il pubblico degli utilizzatori di macchine fotografiche. Dopo che le pellicole furono dotate di carta protettiva, che ne permetteva il caricamento in piena luce, il modello di fotocamera “a scatola” venne proposto da Kodak in versione ricaricabile (la famosa “Brownie”), per poi essere copiato da diverse altre aziende fotografiche. Le box camera furono pertanto le prime fotocamere semplificate della storia e, con queste, molta gente vissuta nella prima metà del XX secolo fece le prime esperienze fotografiche. Verso gli anni ’60 caddero in disuso, ma il concetto di fotocamera semplificata continuò ad esistere con altri modelli per differenti formati di pellicola. Arrivando agli anni ’80, ecco diffondersi dei modelli che possiamo definire senza dubbio toy camera, le cui foto presentavano difetti evidentissimi dovuti alla pessima qualità costruttiva.
Le regolazioni possibili con le fotocamere semplificate, differenti tra i vari modelli, sono sempre e comunque poche; la messa a fuoco in molti casi non è regolabile, ci sono magari due o tre aperture selezionabili e il tempo di scatto è fisso, con alcune macchine che consentono la posa B. L’esposizione va calcolata “a occhio”, cercando di capire se la luce sarà sufficiente o meno per realizzare la foto.
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© Alessandro Agrati |
Dopo questa breve divagazione storica, vado dritto al punto: per quale motivo voglio parlar bene di macchine poco sofisticate come queste? Come molte cose che vengono sottovalutate di primo impulso, anche questi strumenti primitivi hanno qualcosa da insegnare; le loro limitazioni spingono infatti a considerare la scena con maggior attenzione e ad aguzzare l’ingegno per trovare soluzioni. Fanno inoltre capire a chi ha iniziato a fotografare con strumenti più avanzati quali siano gli effettivi vantaggi della tecnologia, permettendone un utilizzo più consapevole.
Nel mio caso specifico, ho imparato a lasciar perdere le situazioni di luce avverse o difficili, per concentrarmi di più su quelle favorevoli; soprattutto con le macchine digitali, mi è capitato spesso di fare foto insignificanti a causa delle condizioni di luce del tutto ignorate: per esempio, paesaggi con le parti più significative della scena totalmente in ombra. Anche dopo lunghe fasi di post-produzione, recuperando ombre e alte luci, le immagini ottenute non erano comunque soddisfacenti.
Utilizzare un arnese che non perdona e non consente di recuperare nulla è stata per me una vera e propria “terapia d’urto”: per poter fare la foto, bisogna che la luce sia sufficiente, ma questo non basta; bisogna scattare col sole più o meno di spalle e il soggetto illuminato dallo stesso se si vogliono avere risultati decenti.
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© Alessandro Agrati |
Mi sono sottoposto gradualmente a questa sfida, a partire dall’acquisto di una toy camera, la Reto Ultra Wide & Slim, una 35mm piccolissima comprata allo scopo di scattare a mio figlio qualche foto un po’ diversa dalle solite. Da lì, ammetto di essermi fatto prendere la mano, utilizzandola nelle situazioni più svariate e consumando metri di pellicola. È incredibile come una macchina così semplice crei dipendenza! La curiosità di verificare se si ottengono i risultati con un dispositivo così modesto non finisce mai. Dopo essermi abituato a questa toy camera, ho avuto il coraggio di riprendere in mano una fotocamera che già avevo usato in passato con alterni risultati, una Ferrania Eura per pellicola 120. Infine, mi è venuto in mente che avrei potuto portare con me queste due macchine durante le vacanze estive…
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© Alessandro Agrati |
Durante le vacanze, capita di visitare posti che in seguito, per un motivo o per l’altro, non si rivedranno mai più. Le foto di viaggio sono poi il mio genere più praticato e preferito; in realtà non è un vero e proprio genere, ma ne combina in sé diversi: dalle foto di paesaggio, rigorosamente senza treppiede, ai ritratti di famiglia fino alle foto di strada.
La scelta di immortalare le vacanze con strumenti così limitati richiede un certo coraggio; ammetto di non averlo avuto, non sono riuscito a fare una scelta tanto radicale, e ho portato con me anche la macchina digitale. Quest’ultima è stata tuttavia utilizzata ben poco, mentre le due “plastichine” macinavano pellicola. Temevo di perdermi qualche scatto, ma alla luce dei risultati, devo dire che anche con macchine più performanti non avrei fatto molto di più. Le immagini che volevo portarmi a casa, in un modo o nell’altro, le ho ottenute e alcune sono perfino meglio (in termini di composizione e luce) di certi scatti digitali che avevo realizzato in passato.
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© Alessandro Agrati |
Vi starete chiedendo che razza di immagini producano questo tipo di fotocamere. Come potete vedere dagli esempi allegati, le foto appaiono nitide al centro per poi perdersi ai bordi, dove compare anche una forte vignettatura. La distorsione è abbastanza evidente in certi scatti, e gli obiettivi sono proni al flare. Se però si tiene conto di queste limitazioni, si può fare in modo che le stesse non vadano a pesare più di tanto nelle immagini e che il soggetto non ne venga rovinato; si impara a convivere con i difetti e a cercare inquadrature che non li enfatizzino troppo. Imparare a stimare le condizioni di luce a vista dà poi una grande soddisfazione, impagabile quando si vede che la foto, per la quale si dubitava che la luce fosse sufficiente, risulta venuta esposta correttamente. L’assenza di troppe regolazioni spinge l’acceleratore sulla creatività per trovare delle soluzioni alternative: se non è possibile fare un bello sfocato per valorizzare un ritratto, magari ci si concentra di più sul posto dove far posare una persona.
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© Alessandro Agrati |
E quali generi fotografici si possono praticare con le macchine semplificate? E’ chiaro che quelli troppo specialistici sono da escludere. I soggetti più fotografabili con queste macchine sono luoghi e persone; pertanto, l’utilizzo che ne ho fatto durante le vacanze è stato compatibile con le loro possibilità. La fotografia di paesaggio, intesa alla maniera classica (stile National Geographics) è imprescindibile dall’utilizzo un’ottima attrezzatura; tuttavia, non è questa l’unica fotografia di paesaggio possibile. Ci si può, ad esempio, concentrare su un determinato dettaglio significativo del luogo visitato, porlo magari nella parte centrale dell’immagine, e realizzare uno scatto valido anche con mezzi più umili. Io mi sono concentrato, più che sulle vedute ampie, sugli scorci delle vie nei centri storici, dove c’è sempre qualcosa come una porta, o una finestra particolarmente vecchia, che cattura l’attenzione.
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© Alessandro Agrati |
Dopo l’esperienza fatta con le macchine semplificate, mi sono reso conto di aver acquisito maggiore accortezza anche quando scatto in digitale, e i risultati ne hanno beneficiato. Credo quindi che, di tanto in tanto, mi sottoporrò nuovamente al medesimo trattamento, utilizzando una fotocamera di questo tipo per non perdere di vista, tra una regolazione e l’altra, quelli che sono gli aspetti fondamentali in una foto.
A presto!
Alessandro “Prof BC” Agrati @agratialessandro
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